Alternativa Libertaria/Federazione dei Comunisti Anarchici

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Sindacato

QUANDO TI AFFIDI ALLA LEGGE LA SCONFITTA É CERTA

20 MAGGIO 1970 – 20 MAGGIO 2020

LO STATUTO DEI LAVORATORI


Il 20 maggio del 1970 veniva approvata la legge 300, conosciuta come Lo Statuto dei Lavoratori. A cinquanta anni da quella data è utile ricordare l'intestazione esatta di quella legge per comprendere nella sua interiezza il significato che il legislatore le volle assegnare. Il titolo recitava testualmente “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.” Prima di vedere cosa rimane oggi dell'impianto originale è necessario, per comprendere l'importanza di questa legge nella storia recente del movimento dei lavoratori in Italia, ripercorrere alcuni passaggi che condussero a quelle scelte. Nel 1970 la guerra era oramai alle spalle da venticinque anni, il paese era passato dalla monarchia e dal fascismo a una repubblica parlamentare, le nuove basi giuridiche che furono messe alla base della novella democrazia erano innervate nella sua legge fondamentale, la Costituzione del 1948 alla quale contribuirono sia i partiti popolari e liberali, sia i partiti socialisti e comunista.

La società che nasce dalle ceneri della guerra si colloca nell'alveo occidentale delle democrazie borghesi, ma sia per la massiccia presenza di forze sociali e politiche che si richiamano espressamente alla tradizione socialista e comunista, e sia perché la ricostruzione del paese abbisogna di uno spirito di collaborazione costruttivo, la Costituzione si caratterizza con un articolato di valori tesi non solo all'affermazione delle “cosiddette libertà borghesi”, ma anche con una spiccata propensione alla giustizia sociale. Questi caratteri “progressivi” della Carta devono fare i conti con il fatto che le sue norme non hanno carattere cogente, ma sono semplicemente prescrittive, hanno carattere programmatorio, e soprattutto soggiacciono a quello che sono i rapporti di forza nella società. Una società che nell'apparato dello Stato ha mantenuto pressoché intatto tutto l'apparato burocratico del fascismo, con, invece, pesanti discriminazioni negli anni '50 verso quei partigiani che quel regime avevano combattuto in armi. Ed è una società civile dove i padroni delle fabbriche e i padroni della terra, gestivano i luoghi di lavoro con angherie, soprusi e sfruttamento. Gli anni che precedono quel 1970 hanno queste caratteristiche. L'idea di una Statuto dei diritti dei lavoratori che prende corpo nei primi anni '50 grazie alla Cgil di Giuseppe Di Vittorio, parte proprio dalla constatazione che i diritti sanciti dalla Costituzione si fermano ai cancelli delle fabbriche. Dare diritti alle lavoratrici e ai lavoratori significa far entrare in fabbrica la Costituzione.

Come spesso accade e come la storia ci insegna i bei concetti e le belle parole quasi mai riescono a cambiare il corso degli eventi. A dare un potente scossone a questa società che aveva rapidamente messo in naftalina i sogni di libertà e di uguaglianza che la resistenza aveva generato furono le nuove generazioni di lavoratori che in una biblica migrazione dal sud al nord si trovarono a scontrarsi con condizioni di lavoro inaccettabili; lavoratori che non avevano vissuto sulla propria pelle il regime fascista e che non subivano il ricatto della ricostruzione che contraddistinse l'unità delle forze antifasciste nell'immediato dopoguerra. Accanto a questi si agitava quel mondo giovanile che grazie anche ad influenze internazionali, professava forse per la prima volta nella storia d'Italia idee di ribellione stanchi di dover soggiogare ad una ipocrita morale catto-comunista fatta di vizi privati e pubbliche virtù. Furono, quelli che precedettero il '70, gli anni della contestazione giovanile delle lotte operaie e contadine, della contestazione delle forme di dominio nei più e vari settori della società.

In particolare in Italia le lotte dei lavoratori andarono ben oltre i canali tradizionali che gestivano i sindacati confederali. Le lotte si svilupparono con i sindacati solo quando questi facevano proprie le richieste che autonomamente le assemblee operaie decidevano. Fu così per il diritto di assemblea, per gli aumenti salariali uguali per tutti, per il diritto alla salute, per l'opposizione intransigente ai licenziamenti. I diritti che politici, sindacalisti, giuristi e giuslavoristi volevano affermare in fabbrica chiedendo l'applicazione della Costituzione, un movimento cosciente di persone, lavoratori e lavoratrici, li imposero nei fatti senza compromessi, con la ragione e la determinazione della lotta.

Questo movimento diede forza alle organizzazioni sindacali, ma fu determinante anche nei confronti dei manager delle grandi aziende che vedevano con crescente preoccupazione lo sviluppo di un fronte di lotta che non cessava di crescere e che, secondo il motto che l'appetito vien mangiando, poneva sempre nuovi obiettivi. Per loro era importante, pur in un quadro di conflittualità, avere controparti certe e che in qualche misura si facessero garanti degli accordi. Come si diceva in quei tempi, si fece la scelta della “sindacalizzazione della contestazione”. Gino Giugni, «L'autunno "caldo" sindacale », II Mulino, gennaio-febbraio 1970, pag. 24. Nel racconto di questa storia di lotte, di richiesta e affermazione di diritti non possiamo dimenticare che in quegli anni si muovono anche forze ostili al movimento operaio e ai suoi valori di libertà e uguaglianza, ma anche ostili all'ordinamento democratico della repubblica. Sono gli anni del tentato golpe “Piano Solo” orchestrato dal presidente della repubblica Antonio Segni in combutta con il generale De Lorenzo già generale del SIFAR (servizi segreti militari) e successivamente capo di stato Maggiore dell'esercito, di strutture clandestine come Gladio al servizio della CIA, della strategia della tensione con attentati dinamitardi di neofascisti protetti da apparati dello stato e attribuito agli anarchici o a gruppi comunisti, sono gli anni che precedono la madre di tutte le stragi, quella di piazza Fontana a Milano addossata a Valpreda e a Pinelli, ma che nella storia rimarrà come la strage di Stato.

Il terreno per l'approvazione dello Statuto dei Lavoratori era a quel punto arato al punto giusto.

Lo Statuto cristallizza i rapporti di forza tra capitale e lavoro e questo nei decenni successivi sarà un elemento se non di forza ma sicuramente di resistenza del sindacato e dei lavoratori. Il ciclo economico espansivo che insieme a tutte le altre circostanze aveva contribuito a dare forza al movimento dei lavoratori, già dai primi anni 70 dava segnali di crisi e le forze padronali iniziarono una lunga e tenace erosione delle conquiste operaie. L'arretramento che in quegli anni iniziò a manifestarsi non si tradusse in rotta precipitosa grazie anche allo statuto che permise una difesa anche sul terreno giuridico spesso più efficacie dei tradizionali strumenti di lotta sindacale. Alcuni articoli si dimostrarono essenziali per contrastare la rinnovata arroganza padronale.

Il divieto di video sorveglianza a distanza, il demansionamento, la disciplina sui licenziamenti, la sanzione della condotta antisindacale, le norme sul collocamento. Numeri che per ogni lavoratore cosciente rappresentavano un'indispensabile cassetta degli attrezzi. Articoli 4, 13, 18, 28, 33 e 34. Un'opera di metodica demolizione di questi articoli è stata messa in atto in questi ultimi venti anni e pezzo dopo pezzo, sia con governi di centro destra, sia con governi tecnici e sia con governi di centro sinistra, di questi articoli non rimane niente o un vuoto simulacro. Lo stesso articolo 28 benché immutato ha perso gran parte della sua valenza dissuasiva per i padroni, vuoi per lo svuotamento delle altre norme che per le mutate condizioni nei rapporti di forza che consentono addirittura agli imprenditori di licenziare gli stessi rappresentanti sindacali.

Oggi, in una fase in cui la crisi economica segna drammaticamente in negativo la prospettiva per i prossimi anni, pensare di risalire la china con la proposta di un nuovo patto sociale, di una partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e nella riproposizione di un nuovo statuto del lavoro, significa consegnarsi con mani e piedi legati al capitale, significa sottoscrivere la propria scomparsa come classe e archiviare definitivamente ogni speranza di liberazione dal e del lavoro.

La storia di questi cinquanta anni ce l'ha insegnato, il conflitto è lo strumento per acquisire ruolo e dignità, la trasformazione dei delegati sindacali in “legulei” ha disarmato la classe e contribuito ad avallare l'attuale situazione.

Per rivendicare degnamente il cinquantesimo anniversario dello Statuto e necessario iscrivere nei loghi dei nostri sindacati la parola conflitto ed organizzare lavoratori e delegati perché possa essere effettivamente esercitato.

Carmine Valente